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Il culto del gatto nell’antico Egitto

I gatti iniziarono a vivere accanto all’uomo quando l’agricoltura fece la sua comparsa: con la coltivazione del grano nacque anche l’esigenza di proteggere le scorte da ratti e topi. Questi felini si rivelarono preziosi alleati, non solo come cacciatori di roditori, ma anche nella difesa contro i serpenti, che spesso riuscivano a sconfiggere. Si racconta persino che i gatti conoscano istintivamente alcune erbe da mangiare come antidoto naturale ai morsi dei serpenti.
Il gatto europeo discende direttamente dal gatto egizio. Si ritiene che nel I secolo d.C. i gatti fossero imbarcati sulle navi per contrastare i topi e che durante questi viaggi abbiano raggiunto l’Europa.

I gatti domestici compaiono nelle rappresentazioni tombali egizie a partire dal Nuovo Regno, verso il 1500 a.C. Gli antichi egiziani chiamavano il gatto “myeu” e addomesticarono quelli che vivevano ai bordi del delta del Nilo. Il gatto delle paludi nilotiche appartiene alla specie Felis chaus nilotica e si confonde spesso con la lince.
Si ritiene che la prima comparsa del gatto in una rappresentazione si trovi nella tomba di Khnumhotep III (XII dinastia – Medio Regno), a Beni Hasan. Il defunto è rappresentato nella palude mentre cerca di infilzare dei pesci con uno spiedo; il gatto è appostato sopra un fascio di papiri pronto a scattare sulle prede.

La parola gatto scritta con geroglifici

Nelle tombe dell’Antico Regno, il periodo delle piramidi, sono numerose analoghe rappresentazioni. Ma in questo periodo gli animali che insidiano gli uccelli della palude sono genette e manguste . E’ interessante notare che nelle necropoli di animali non c’è alcuna distinzione tra le varie razze di gatti e fra loro compaiono anche genette e manguste.
I fasci di papiri non potevano sostenere il peso dei gatti e degli altri animali cacciatori, come compare nelle rappresentazioni. Quindi il realismo delle scene è relativo perché il loro presupposto è religioso. Infatti queste scene nilotiche continuano a essere rappresentate anche nel Nuovo Regno e nei periodi successivi per mostrare che il defunto dominava gli elementi del caos, simboleggiati dagli animali della palude. In questo compito il defunto aveva degli aiutanti magici, gli animali che erano manifestazioni di divinità .

Il gatto come forma di Ra, il dio sole

Dipinto funerario del 1100 a. C.

Nelle tombe regali del Nuovo Regno, nella Valle dei Re, è riportato un testo funerario conosciuto come “Le litanie del Sole”. Questo testo descrive le 77 forme che può assumere Ra. Il gatto è una di tali forme.

La religione egizia esprime un conflitto permanente tra Ra, che rappresenta la continuità della creazione, e un mostruoso serpente di nome Apopi. E’ un conflitto cosmico poiché Apopi cerca di bloccare il corso del sole per tornare al caos delle origini. Questo conflitto è il tema dominante di tutti i testi funerari regali. Naturalmente Ra risulta sempre vincitore. Nei vari “libri” funerari Ra è coadiuvato da assistenti divini. Alcuni di questi, rappresentati con le orecchie di gatto, sono impegnati a straziare o a tagliare le teste degli alleati di Apopi.
La lotta tra Ra e Apopi è rappresentata con scene vivaci in tombe private e in papiri che riportano le vignette del Libro dei Morti: un feroce gattone, Ra, con un grosso coltello seziona un serpente, Apopi, che comunque la notte successiva tenterà nuovamente la malvagia impresa di bloccare il corso del sole.

La gatta, figlia di Ra

La Gatta era identificata con l’ureo, la dea Udjat, il cobra posto sulla fronte di Ra a sua protezione. Era anche una manifestazione di Hathor, dea della gioia e dell’amore, che nel “Mito della Vacca Celeste” si muta nella terribile leonessa Sekhmet.

Il mito narra che, per punire una congiura degli uomini, Ra ordina a Hathor di sterminarli. Trasformatasi in Sekhmet, la dea compie una carneficina. Pentito, Ra escogita un inganno: fa preparare birra colorata di rosso e la fa versare nel deserto. Sekhmet, scambiandola per sangue, la beve e si ubriaca, dimenticando la sua missione. Da questo episodio nacque la “festa dell’ebbrezza”, celebrata nel mese di Thot, soprattutto a Bubasti (“la casa di Bastet”), con grandi bevute di vino in ricordo della fine della strage.

La metamorfosi della dolce Hathor nella feroce Sekhmet è emblematica della religione egizia, dove le divinità femminili – Hathor, Sekhmet, Bastet, Uadjet, Tefnut, Mut, Nekhbet, Mafdet, Mehyt e altre – potevano fondersi e assumere aspetti benevoli o distruttivi. La “gatta di Ra” rappresenta quindi una divinità multiforme, capace di incarnare sia la tenerezza sia la potenza del leone.

Bastet è nota come la dea gatta, ma tale identificazione si affermò solo dalla XXII dinastia. Prima e anche dopo quel periodo, Bastet e Sekhmet erano considerate manifestazioni di una stessa essenza divina. I medici, sacerdoti di Sekhmet, utilizzavano strumenti sacri custoditi nel cofano di Bastet. Lo scettro di Sekhmet, lo uadj a forma di papiro, simboleggiava la frescura e la guarigione concessa ai malati.

Bastet possedeva templi solo a Bubasti e Saqqara nord; le sue immagini, tuttavia, si confondevano con quelle di Sekhmet e spesso con le raffigurazioni della dea Hathor.

Il mito della dea lontana

Il mito racconta che per una lite tra il dio Ra e l’ureo, sua figlia, quest’ultima abbandona l’Egitto e si rifugia in Nubia dove si trasforma nella leonessa Tefnut. Ma Ra vuole che sua figlia ritorni e riprenda il suo ruolo di protezione magica. Invia quindi alla figlia due messaggeri, Onuris (=colui che riporta la lontana), e Thot, il suo visir, per convincerla a tornare in Egitto. Il dio Thot si trasforma in babbuino per dialogare con la fiera, mostrandosi in questa occorrenza anche maestro di eloquenza. Tefnut resiste a lungo agli allettamenti di Thot, ma alla fine acconsente a tornare alla patria natia e ai suoi affetti familiari.

Mano a mano che la dea procede sul suolo d’Egitto, la leonessa Tefnut si trasforma e prende le forme delle divinità femminili che presiedono alle varie località. Un gruppo statuario del museo del Louvre, artisticamente piuttosto brutto, è grandemente significativo nel mostrare l’interdipendenza tra le principali divinità femminili: la più appariscente è Hathor nella sua forma di vacca, la dea di Dendera; si identificano poi Mut, la dea di Tebe, rappresentata come donna; la dea Uadjet, dea di Buto e patrona del Basso Egitto, nella sua forma di cobra; la dea Bastet, la dea di Bubasti, rappresentata come un felino.

In Egitto la feroce Tefnut cambia gradatamente la sua natura fino a diventare la dolce e amabile gatta Bastet. Alcuni templi minori avevano lo scopo di festeggiare il ritorno della dea e anche i templi maggiori riportavano nei testi e nelle rappresentazioni tracce di questo mito. La spiegazione più ovvia di questo mito è che esso fosse una metafora dell’inondazione proveniente da sud, dalla Nubia, rinnovando la vita in Egitto e annunciando un prossimo cambio di stagione, con giornate meno torride e quindi più godibili.

La dea gatta Bastet (Bast o Bastet o Bastit)

Statuetta in bronzo raffigurante la dea Bastet

E con la XXII dinastia, verso il 950 a.C., che si espande il culto di Bastet e a promuoverlo sono i preti di Sekhmet sotto i sovrani di origine libica.

Nell’Antico Regno Bastet è una divinità leonina. Lo provano i portali del tempio di granito di Chefren (il portale nord è dedicato a Bastet e il portale sud a Hathor), alcuni passi dei Testi delle Piramidi e i resti di una cappella di Pepi I (VI dinastia) a Bubasti.
Anche nei templi della XXII dinastia e in quelli successivi Bastet è identificata con una leonessa. Ma nelle tombe private e nella devozione popolare la dea assume la forma di una gatta. In questo periodo compaiono una infinità di bronzetti che rappresentano sia una gatta accucciata che una gatta attorniata da vari micini. La gatta Bastet è diventata un talismano di felice maternità. Sorge anche un suo stretto collegamento con Mut rappresentata come avvoltoio, in quanto la figura dell’avvoltoio nel geroglifico significa madre.

L’associazione della gatta Bastet con la dea dell’amore Hathor è documentata anche dalle numerose immagini di gatte trovate nei santuari hathorici di Serabit el-Khadim e di Timna nel Sinai. D’altra parte anche Bastet, come Hathor, viene pacificata dal suono dei sistri e delle collane menat, strumenti ai quali queste divinità erano associate.
Il gatto, animale sacro alla divinità Bastet, simboleggia il calore benefico del sole. La divinità era venerata come protettrice della casa e della famiglia.

Riti religiosi nell’Antico Egitto

Il gatto era onorato dagli antichi egiziani. I gatti erano celebrati con rituali funebri che includevano la mummificazione, il rivestimento con elaborate fasciature e la raffigurazione di tipologie ed espressioni.

In tutto l’Egitto si sono trovate vaste necropoli di gatti. Il culto per tutta una specie invece che per un singolo animale si è diffuso a partire dal IV secolo a.C. per iniziativa dei sovrani tolemaici. Nella religiosità del popolo egizio questi sovrani colsero la possibilità di ottenere grossi benefici economici. Le specie animali associate alle varie divinità (gatti, cani, ibis, montoni, uccelli rapaci, ecc.) furono allevate su vasta scala in prossimità dei templi dove confluivano le masse dei pellegrini.
I pellegrinaggi religiosi erano molto importanti all’epoca: Erodoto racconta che in occasione della festa di Bastet confluivano a Bubasti fino a 700.000 pellegrini. Per inviare le loro richieste agli dei, entità astratte che vivevano in cielo, i pellegrini sceglievano un animale associato alla divinità di riferimento, il gatto nel nostro caso, e pagavano una quota perché l’animale fosse ucciso, imbalsamato e sepolto.

Le mummie dei gatti

L’esame delle mummie di gatti ha mostrato che i vari esemplari avevano in genere pochi mesi di vita e che la loro morte era avvenuta per torsione del collo. I riti dell’imbalsamazione trasformavano il povero animale in un Osiri, il dio dei morti, quindi un essere divino con una vita felice nell’aldilà egizio.

Diodoro Siculo , storico del I sec. a.C., racconta che chi uccideva un gatto subiva la pena di morte e cita un caso a cui assistette di persona: un cittadino romano, che uccise involontariamente un gatto, venne linciato dalla folla. La contraddizione con l’uccisione rituale dei gatti è solo apparente: il rituale trasformava il gatto ucciso in un essere divino, quindi anche l’animale ne traeva un vantaggio.

A sua volta Polieno , storico greco del II secolo d.C., racconta che il re persiano Cambise (VI sec. a.C.) per conquistare la città di Pelusio ricorse allo stratagemma di mettere degli animali, fra cui dei gatti, davanti ai suoi soldati: la città cadde subito perché i difensori evitarono di lanciare frecce per non colpire gli animali.
Nel Bubasteion (= necropoli di gatti) di Saqqara nord si sono trovate anche le spoglie di due giovani leoni, a riprova della analoga identità con cui venivano considerati questi felini.

Mummia del gatto

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